Messaggi flash e pensieri

01/03/2012: Addio grande uomo! :'(

Racconto di Alfonso D.S.

Un giorno, mentre sistemava la soffitta, M.E.C. trovò un baule di legno che non riconobbe come suo, e decise quindi di portarlo in redazione.
Quest'ultimo era decisamente grande e pesante, di radica scura e gli intarsi dorati riprendevano le venature circolari del legno donandogli, allo stesso tempo, una sensazione di pesantezza e vaporosità che era difficile da spiegare. "L'unica cosa certa", pensò M.E.C., "è che è bellissimo" concluse, passando delicatamente le dita sugli spigoli dorati, adornati a loro volta da due pietre verdi opalescenti.
Il suo sguardo scese lungo la parte frontale, fermandosi sulla serratura aperta che mostrava solamente due ganci forati sovrapposti, tra i quali sarebbe dovuto passare un lucchetto che lo tenesse chiuso. Lo aprì subito per vedere cosa conteneva.
Nonostante si aspettasse di tutto, M.E.C. fu sorpreso di trovarvi all'interno un fantoccio di fattezze maschili e dai tratti delicati. La struttura era in legno molto chiaro, vestita con un kimono di broccato di seta. Si fermò qualche attimo a guardarla da vicino: i tratti erano disegnati con tanta maestria da risultare perfetti; non vi era nessuna riga più alta o più bassa di un'altra, sbavature o sezioni di grandezze diverse.
In mente gli esplosero mille proposte per nuovi articoli, interviste e sezioni per il blog. L'antiquariato era da sempre un must per le redazioni che si occupavano di giornalismo e di attualità e con il baule e quella bambola avrebbe potuto farsi dare una mano a tirare fuori dei nuovi progetti niente male. Non vedeva l'ora che gli altri li vedessero.
Delle voci che entrarono dalla piccola finestra rettangolare in fondo alla stanza lo distrassero da quei pensieri e, riconoscendole, M.E.C. si precipitò a guardare fuori. Sotto casa stavano passando due suoi colleghi: il biologo e scienziato Carlo Cozza e lo psicologo Elias Stranamore, entrambi in giacca e cravatta e con in mano uno di quei grandi bicchieri di carta della caffetteria dietro l'angolo, immersi in discorsi che lui non riusciva mai a capire.
Decise di fargli un fischio e di portarli di sopra.
Dopo aver dato un'occhiata agli oggetti ed essersi scambiati delle opinioni rapide, M.E.C. gli chiese gentilmente se potevano dargli una mano a portare tutto di sotto per poterlo caricare in macchina, visto che da solo non ce l'avrebbe mai fatta. Gli altri due furono contenti di potergli dare una mano e, nonostante qualche problema a far passare il baule dalla porta e alcune soste per le scale per decidere se fosse meglio sollevarlo o trascinarlo, alla fine, con un ultimo sforzo caricarono tutto nel cofano dell'utilitaria parcheggiata sotto casa.
- Grazie mille, ragazzi. - disse M.E.C., asciugandosi la fronte imperlata di sudore con il fazzoletto scozzese che teneva sempre in tasca. - Non saprei come avrei fatto senza di voi.
- Nessun problema. - rispose Carlo, riprendendo fiato. - Ci vediamo più tardi a lavoro - concluse.
Elias sorrise, gli fece l'occhiolino e dopo avergli dato una pacca su una spalla, riprese il percorso con l'amico, reimmergendosi nei loro discorsi criptici.

M.E.C. aprì la portiera e si sedette al posto di guida girando la chiave senza quasi guardare. Diede una rapida occhiata nello specchietto retrovisore e, mettendo la prima, premette con decisione l'accelleratore. L'istante dopo quasi non gli prese un infarto, visto che, uscendo dal parcheggio, stava investendo Yoko Yono, il vecchio proprietario del ristorante giapponese del quartiere, suo grande amico. Quest ultimo gesticolava come un ossesso davanti al parabrezza facendogli cenno di scendere subito.
"Cos'è accaduto?" si chiese M.E.C., pensando che l'unica spiegazione fosse che l'altro volesse rimproverarlo per la mancata attenzione alla guida.
- Scendi subito! - gli urlò l'anziano bussando sul vetro del finestrino.
L'altro annuì e si precipitò fuori. - Che succede? - domandò, quasi preoccupato a quel punto.
- Dove stai andando? - chiese Yoko, avvicinandosi e scrutandolo con i suoi piccoli occhi dall'alto in basso, puntandogli il bastone contro.
- A lavoro come tutti i giorni -, rispose M.E.C.. Quel vecchio era un brav'uomo, ma a volte era proprio strano.
- Sento un'aura maligna attorno a te. Devi fare molta attenzione. Oggi non sarà una buona giornata -, continuò l'altro, profetico. - C'è qualcosa che non va, lo percepisco chiaramente -, concluse.
M.E.C. alzò gli occhi al cielo. Pensò al fatto che tra i giapponesi immigrati, Yoko era un vero punto di riferimento. Ogni giorno vedeva decine di persone che entravano nel suo ristorante, non solo per mangiare, ma per chiedergli previsioni per il futuro, riti spiritici, preghiere mistiche; robe così insomma. Ma lui non ci credeva a quelle cose. Rispettava la sua gentilezza e perdonava la sua stramberia. Inoltre era un vero pozzo di sapienza su qualunque argomento, soprattutto su ciò che riguardava la sua cultura e il suo popolo. Gli era stato utile moltissime volte in passato per approfondire degli argomenti sui quali stava lavorando.
- Ti ringrazio Yoko, ma sai che non credo a queste storie - rispose, guardandolo con un sorriso e accarezzandogli la spalla con fare caritatevole. Dopodichè tornò in macchina e ripartì a tutto gas per guadagnare tempo.
L'anziano orientale gli puntò nuovamente contro il bastone urlando ancora una volta di fare attenzione, quindi riprese a camminare, voltandosi e lisciandosi la barba con la mano libera.

Durante il tragitto, M.E.C. si grattò il braccio destro sempre nello stesso punto. "Quel vecchio prima o poi mi farà diventare pazzo con i suoi sproloqui" si disse, agitato per la paura di arrivare in ritardo e lo spavento di prima.
Fece ancora una curva e fermò la macchina tra due strisce del parcheggio che si trovava sotto il palazzo in cui aveva sede la redazione, quindi, diede una rapida occhiata all'ora sul piccolo schermo digitale a caratteri verdi dietro al volante, mentre metteva già fuori una gamba. Fortunatamente era ancora presto e poteva fermarsi tranquillamente a prendere un caffè al bar prima di raggiungere gli altri in ufficio.
Facendo tintinnare i campanellini appesi alla porta, M.E.C. entrò nel bar illuminato dalle grandi vetrate sulla sinistra, scorgendo subito Elisabetta (la responsabile della sezione 'Casa e Cucina') seduta all'angolo in fondo al bancone in legno scuro e acciaio che invece occupava tutto il lato destro del locale. - Ciao -, le disse, lasciandosi cadere di botto sullo sgabello di fianco.
L'altra ricambiò il saluto con la mano mentre con l'altra reggeva una sottile cannuccia dalla quale bevve un lungo sorso di frappè al cioccolato. - E' così fresco! - esclamò. - La mattina non posso fare a meno di ordinarne uno. La cioccolata mi dà la carica per affrontare meglio la giornata. - Fece scivolare entrambe le mani sul vestito lungo a fiori per togliere le pieghe, quindi accavallò le gambe. - C'è qualcosa che non va? - chiese poi, vedendo l'espressione di M.E.C..
- Non è niente -, rispose l'altro. - E' solo che stamattina ero un pò di corsa. Sai chi c'è in redazione?
- Lucio è andato lì presto stamattina. Aveva del lavoro da finire. - Fece una smorfia con la bocca. - E con lui c'è quell'oca di Anne che, con la scusa di dargli una mano, ci prova da almeno un paio di mesi.
M.E.C. rise. Lei è Anne non avevano mai avuto grandi simpatie l'una per l'altra. - Ma Lucio non è gay? -, chiese ancora ridendo.
- Come un boa di piume di struzzo! - rispose l'altra facendo un gesto eclatante nel portarsi indietro i capelli e stringendo le labbra rosse. - Ma quella è tutta scema.
M.E.C. esplose in una risata forte, dopodichè disse: - Ordinami un espresso, per favore. Io devo fare un salto in bagno.
Spingendo le porte a spinta M.E.C. dovette stringere gli occhi investito dai riflessi del bagno, completamente in ceramica bianca. Corse ad uno dei lavandini e si sciacquò ripetutamente il viso con dell'acqua gelida. Alzando gli occhi allo specchio gli sembrò come di vedere un morto: la pelle era tirata e il colorito cadaverico. In quel momento sentì come se il cervello pulsasse e crescesse, tentando di uscire fuori dalla testa; o viceversa, come se la testa si stesse per rimpicciolire di attimo in attimo e non riuscisse più a contenerlo. Guardò in basso sospirando, e fece caso al fatto che quella fastidiosa sensazione non era limitata al capo, ma si estendeva a tutto il corpo. Un misto di formicolio, pulsazioni e spasmi muscolari.
Tornò da Elisabetta che si sentiva un pò meglio, ma decise che non avrebbe bevuto il caffè che fumava nella tazzina poggiata sul bancone davanti al suo sgabello.
- Tutto bene? - chiese nuovamente la collega, preoccupata.
- Si, tutto bene -, rispose M.E.C., rassicurandola. L'altra stava per alzarsi e seguirlo. - Stai pure lì, Eli. Pago io tutto -, le disse con un sorriso. - Ci vediamo dopo a lavoro - concluse.
Prima di uscire si fece dare un bicchiere d'acqua nel quale fece frizzare una pastiglia multivitaminica. Lo bevve tutto d'un sorso pensando che magari quella sera avrebbe fatto un salto a farsi vedere.

Passando davanti alla manciata di numeri civici che dividevano il bar dalla redazione, M.E.C. si godette l'aria fresca della mattina e fece dei grandi respiri.
Arrivato al grande portone scuro, in cui erano incastonati dei vetri smerigliati rinforzati da spirali di ferro battuto, premette il bottone del citofono e in quell'istante, una sensazione di panico e orrore si impossessò di lui quando il suo sguardo si posò sul braccio sollevato. Nella parte che aveva continuato a grattarsi la pelle si era sollevata, come uno straccio piegato; i peli si erano raggrumati in piccoli ciuffi e quel rettangolo di pelle sembrava 'fuori posto'. Nonostante il senso di repulsione, tastò la zona con l'altra mano e appena la toccò, quella scivolo giù a terra mostrando qualcosa sotto: una superficie scura e dura che sembrava quasi... legno.
Tenendo il braccio destro teso come non riuscisse più a comandarlo, come se non gli appartenesse più, prese dalla tasca il cellulare con la mano sinistra e cercò subito in rubrica il numero del ristorante giapponese.
Dopo uno scambio di incomprensioni con uno dei camerieri, gli fu passato finalmente il proprietario: - Pronto? - rispose cordialmente questo.
- Yoko, sono M.E.C.! - quasi gli urlò l'altro.
Dall'altro capo del telefono ci fu un attimo di silenzio nel quale M.E.C. si accorse che il vecchio aveva colto il panico nella sua voce. - Che succede, ragazzo? - gli chiese con un filo di apprensione.
M.E.C. continuava ad osservare il lembo di legno che si incastrava perfettamente col suo braccio. - Non lo so, Yoko! E' da stamattina che non sto bene. Mi sento come se la testa mi scoppiasse, continuo ad avere dei formicolii in tutto il corpo e poco fa mi è caduto un pezzo di pelle dal braccio e sotto è tutto scuro e venoso! Sembra di legno! - sbraitò, quasi piangendo.
All'altro capo ancora silenzio. - Per caso, hai con te quella bambola di stamattina?
M.E.C. rimase un attimo basito: - Tu come fai a saperlo?
- Ho visto che la caricavi in macchina assieme al baule. - L'altro lo stava interrompendo per chiedergli cosa c'entrava la bambola con quella storia ma Yoko lo fermò subito. Il suo parlare divenne più veloce: - Ascoltami con attenzione, ragazzo. So che tu non credi alle storie di spiriti o alle leggende, ma penso proprio che quella bambola sia una Ningyo, una bambola giapponese. In Giappone si crede che anche le bambole abbiano una Tamashi, un'anima... loro assorbono lo spirito dell'artista che l'ha realizzata - spiegò. La sua voce si era alzata di tonalità man mano che proseguiva. - Devi disfarti di quella cosa, subito! Sono sicuro che il proprietario ha creato quell'oggetto il preda al rancore, così l'ha resa malvagia. Quella bambola è maledetta!
M.E.C. guardò il telefono come se fosse il coltello di un assassino, quindi lo gettò lontano da sè con forza.

Da dietro il portone si udirono dei passi frettolosi provenire dalle scale, quindi il rumore meccanico della serratura che si apriva. Il volto di Lucio e quello di Anne fecero capolino.
Pensando di trovarsi davanti uno dei colleghi, rimasero scioccati nel vedere un giovane, dalla carnagione bianca come la porcellana, gli occhi a mandorla contornati di nero che mettevano in risalto l'iride verde giada; i capelli erano totalmente bianchi nonostante l'età immatura e sembrava indossare un meraviglioso indumento tradizionale, dipinto con un affresco complicato, dai colori sgargianti.
Quest'ultimo abbassò lentamente gli occhi per fissare un punto ai loro piedi, quindi si voltò con grazia e sparì lentamente in fondo alla strada.
Quando anche gli altri due, decisamente sbigottiti dall'insolito incontro, decisero di abbassare lo sguardo, notarono un enorme baule aperto, contenente una bambola di legno: gli abiti che indossava avevano un taglio moderno; aveva i capelli neri e gli occhi piccoli. I dettagli erano così realistici che sembrava quasi una persona vera.

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